Vivere nel nascondimento. Essere preti gay nella chiesa cattolica
Articolo di Josselin Tricou* pubblicato sulla rivista Sociologie (Francia), 2018/2 (Vol. 9), pp. 131-150, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, parte seconda
Nel 2011, mentre lavoro per una organizzazione cattolica, incontro padre Adrien, un sacerdote diocesano poco più che quarantenne, parroco di una parrocchia urbana borghese. Fin dalla postura del corpo si vede quanto sia distante e distaccato, e dal cognome si apprende che è di origine nobiliare: la sua famiglia viene dall’antica nobiltà rurale dell’ancien régime. È cresciuto nel cosiddetto movimento scoutistico “tradizionale” o “unitario” (Guides et Scouts d’Europe, Scouts unitaires de France), creato tra gli anni ‘60 e ‘70 come reazione alle riforme pedagogiche all’interno degli Scout di Francia. Veste la talare nella sua parrocchia, in tutti gli altri luoghi, invece, giacca e camicia clericali e collarino [1]. Celebra la Messa con uno scrupoloso rispetto per le rubriche [2]. Le sue omelie sono rigidamente moralistiche e “restaurazioniste” in termini ecclesiologici, vale a dire che cercano di far rivivere il sogno di una società cristiana.
Nel 2012, nel pieno dei dibattiti sull’apertura del matrimonio civile alle coppie omosessuali, noto in Francia come “mariage pour tous”, telefono a un mio amico, padre Marc, un sacerdote di poco più di quarant’anni che ha vissuto quella che si chiama “vocazione tardiva”. È un “progressista”, e mi confida la sua sessualità e il suo disagio di fronte a quello che considera un ritorno della retorica omofoba all’interno della Chiesa. Pur non avendo mai fatto un coming out pubblico, posta articoli sull’argomento su Facebook, critici verso la virulenza della Chiesa. Mi dice che ha cenato con padre Adrien, il quale si è lanciato in una polemica omofoba contro il matrimonio omosessuale; padre Marc è ancora sotto shock.
Nel 2013 sto scrivendo la mia tesi in scienze politiche sulla “identità degli uomini nella Chiesa”, e per la mia ricerca sociologica intervisto padre Julien, un monaco di poco più di cinquant’anni, che avevo incontrato alcuni anni prima, quando stavo facendo un ritiro nel suo monastero, dove aveva discretamente flirtato con me. Interpretando [3], almeno di fronte a me, la parte della checca (ovvero “l’archetipo popolaresco dell’uomo effeminato caratterizzato dal doppio stigma dell’inversione e della stravaganza”, come scrive Jean-Yves Le Talec), e divertendosi a chiamare i suoi confratelli con pronomi femminili, secondo la tradizione dell’umorismo “camp”, mi parla (con una certa irritazione) dei molti sacerdoti omosessuali che ha conosciuto: “In particolare il clero diocesano vive di menzogne, di inganni, e sono paranoici [si spaventa] a morte. Mi dicono ‘Devi essere discreto in pubblico, e mai dire le cose per come sono!’. No! Le cose bisogna dirle! Non puoi girare in talare e protestare contro gli omosessuali, e poi subito andare a sc… ehm, no, ad avere rapporti sessuali, ehm no… omosessuali… omosessuale, rapporto sessuale? [Ride] Lapsus freudiano!”.
Più che un vero e proprio scioglilingua, questo mi sembra un esempio dei classici trucchi linguistici che servono a tenere chiuso il nascondiglio, che consiste nell’eterosessualizzare, o almeno nel neutralizzare, le parole utilizzate per parlare di sessualità. Padre Julien (probabilmente) ride perché sa molto bene di usare lo stesso linguaggio che condanna, giustamente e con veemenza, nei suoi colleghi, ma continua, e cita l’esempio di padre Adrien, sapendo bene che anch’io lo conosco: “Non lo giudico, lo conosco come le mie tasche e mi piace molto, ma la cosa terribile è che ogni volta che siamo in pubblico mi dice ‘Comportati bene! Comportati bene!’ , ma io non ho bisogno di comportarmi bene! E il suo grande punto di domanda è ‘Tu pensi che loro credano che io sia gay?’“.
Secondo padre Julien, padre Adrien (che una vota gli ha chiesto aiuto per “unificare la sua vita di sacerdote” dopo aver scoperto di essere sessualmente attratto dagli uomini) si è rifugiato molto presto in una doppia vita, divisa tra il “puro amore” per la Chiesa e un’omosessualità promiscua che consiste di rapporti anonimi. È una vita temporalmente e spazialmente divisa, secondo padre Julien un caso “di talare durante il giorno e drag queen la notte” e “a casa sua c’è la camera da letto con il suo computer, e il resto della casa; non si può entrare in camera, è chiusa a chiave”.
Per prima cosa dobbiamo notare come le parole di padre Julien possono essere eccessivamente critiche in quanto è un monaco, oltretutto membro di un ordine antico e prestigioso, ma in ogni caso, dal punto di vista delle strutture oggettive della Chiesa Cattolica, il clero monastico (o regolare) gode di una maggiore indipendenza dall’autorità ecclesiastica (locale o romana) del clero diocesano (o secolare). I loro membri “devianti”, protetti dalla comunità, sono meno direttamente esposti al rischio di essere “duramente” giudicati, vale a dire alla possibilità di ricevere insulti o denunce da parte dei laici. Perciò, continuando nello spirito da flirt del nostro primo incontro, padre Julien gioca sul nostro tacito accordo e forse cerca di impressionarmi con la sua libertà di parola, in contrasto con quella dei sacerdoti di cui parla.
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[1] Esistono due forme di abito clericale che distinguono ufficialmente i sacerdoti dai laici nella vita quotidiana (vale a dire, quando non officiano): una è la talare, e l’altra è una giacca nera con camicia e collarino “romano”, così chiamato perché assomiglia a quello della talare di tipo romano. Tra gli anni ‘70 e ‘80 è stata forte la tendenza tra il clero a rifuggire dal clericalismo: il risultato è che la grande maggioranza dei sacerdoti e dei vescovi francesi ha abbandonato ogni tipo di abito che la contrassegni, ma oggi il completo clericale di giacca e camicia appare “normale” tra i membri più giovani del clero. La talare sopravvive come contrassegno di tradizionalismo, diventando in ogni caso sempre più comune.
[2] Nei testi liturgici cattolici le rubriche sono quelle sezioni che non fanno parte del rito, ma indicano come lo stesso debba essere eseguito.
[3] Seguendo Foucault, Judith Butler considera la performance di genere non un atto del soggetto, bensì un processo ripetitivo di imitazione delle convenzioni, “interpretato” dal soggetto, ripetizione che ha l’effetto di costruire e creare il soggetto, il quale è in grado comunque di giocare con la sua performance a seconda di ciò che si propone, come in questo caso fa padre Julien.
* Josselin Tricou è assistente al Laboratorio di studi di genere e sessualità (LEGS) all’Università Parigi 8.
Testo originale: Recreating “moles”: Managing homosexual priests’ silence in an era of gay marriage