Vivere nel nascondimento. I tanti modi di essere preti gay
Articolo di Josselin Tricou* pubblicato sulla rivista Sociologie (Francia), 2018/2 (Vol. 9), pp. 131-150, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, parte quarta
Questa serie di articoli si basa su una più vasta tesi di dottorato che tratta della rappresentazione sociale e delle prassi contemporanee dei sacerdoti cattolici e dei membri maschi degli ordini religiosi, nell’attuale contesto di grandi cambiamenti negli ambiti del genere e della sessualità.
ll materiale citato in questa serie di articoli proviene da quattro seminari etnografici intensivi svoltisi in monasteri e in istituti religiosi, da sessanta interviste biografiche con sacerdoti in servizio in Francia e in Vaticano, e da interviste più approfondite con quattro di questi sacerdoti.
La ricerca è stata svolta in vari luoghi, e in parte deriva dalle mie esperienze di vita, come il fatto di essere cresciuto in un contesto cattolico e il fatto di essere un uomo.
Con l’eccezione di monsignor Charamsa, citato, su sua richiesta, con il suo vero nome, tutti i nomi degli intervistati sono stati modificati. Sono stati anche omessi o alterati alcuni dettagli (età, ruolo, luoghi) per evitare di svelare l’identità degli intervistati, dato che rischiano non solo la loro reputazione, ma anche la loro “vocazione”.
“L’intervista […] dev’essere […] una oggettivazione partecipante che mira a costruire accuratamente il suo oggetto, e non dovremmo ammettervi delle informazioni che non provengono dalla relazione sociale sviluppata con l’intervistato” (Sylvain Laurens); ecco perché ho voluto includere [negli articoli precedenti] ampi stralci dei miei appunti di ricerca.
Per rivelare il mio ruolo di partecipante all’interno del contesto sociale, gli appunti chiariscono al lettore i diversi tipi di rapporto che ho avuto con padre Adrien a seconda dei momenti e dei contesti, così che il lettore possa apprezzare meglio il tenore dell’intervista finale (più precisamente, il modo in cui è stata richiesta e rifiutata) e di comprendere quella segretezza istituzionale che ha improntato di sé tutto il rapporto fra noi, la segretezza istituzionale che cercherò di analizzare in questa serie di articoli, sia dal punto di vista sistemico che da quello situazionale.
Se li mettiamo insieme facendo dei riferimenti incrociati, questi scampoli di storie su padre Julien, padre Robert, padre Marc e soprattutto padre Adrien (messi assieme in una grande varietà di situazioni, tra cui interazioni sociali “non scientifiche”, momenti di autoanalisi da parte del ricercatore, e interviste a volte negate) gettano luce su quel mondo di repressioni interiorizzate e sui profili psicologici di sacerdoti che paiono essere molto tipici del cattolicesimo occidentale contemporaneo, anche se nessun metodo statistico sarebbe in grado di stabilire la loro prevalenza tra il clero.
Come sono questi profili psicologici? In termini moderni, i quattro sacerdoti sembrano soffrire tutti di “vergogna”, vale a dire che si guardano dal rivelare la loro omosessualità; ma la contrapposizione contemporanea tra “vergogna” e “fierezza” non descrive in maniera adeguata la loro situazione.
In particolare nel caso di padre Adrien, tale contrapposizione ne cela a stento un’altra: una più antica ermeneutica dell’omosessualità, che riassume la contrapposizione proustiana tra la “razza maledetta” e il “popolo eletto”. Nel contesto cattolico, questo significa che il sacrificio di sé per il “popolo eletto” può apparire come una forma di redenzione personale e collettiva per i “maledetti”, rendendoli gli eletti tra gli eletti.
In secondo luogo, la contrapposizione tra vergogna e fierezza mi pare essere troppo cruda alla luce delle relazioni sempre diverse tra segretezza e nascondiglio che ciascuno dei sacerdoti si è costruito, delle posizioni personali distinte che si riflettono nei diversi termini che usano:
– Padre Adrien corrisponde in pieno alla definizione di “talpa”, che in questo ambito ho sentito pronunciare parecchie volte. È un termine che designa un sacerdote a suo agio nel nascondiglio, dove cerca di far stare anche i suoi confratelli: da qui l’uso di questo termine, ripreso dal mondo dello spionaggio;
– Il linguaggio del corpo di padre Julien è molto esplicito, sebbene non richieda in maniera esplicita che la Chiesa, o la società, riconoscano la sua omosessualità. Nonostante la posizione della collettività cattolica che de-sessualizza o a-sessualizza i sacerdoti [1], lo stesso padre Julien riconosce che alcuni giovani che incontra lavorando “nelle periferie” della Chiesa non si sbagliano sulla sua sessualità, e lui sa bene come giocarci su, atteggiandosi in maniera più “camp” in determinate circostanze, e nel fare questo incarna la “regina della sagrestia”, come si dice nella sottocultura gay clericale.
Questa espressione è molto significativa: la sagrestia costituisce le quinte del palcoscenico liturgico, proprio come il nascondiglio in un contesto eteronormativo: è uno spazio non visibile al pubblico (anche la porta può rimanere socchiusa), riservato ai sacerdoti e ai loro più stretti collaboratori, dove ci si toglie il costume indossato sul palcoscenico. La sagrestia è quindi il simbolo di una comunità di quei “happy few” che ritengono di poter beneficiare di una conoscenza e di un potere esclusivi, che li pongono al di sopra di chi non è iniziato;
– Padre Robert sembra incarnare il tipo di sacerdote che padre Julien, in modo leggermente derisorio, chiama “pseudo”, ovvero quei sacerdoti gay che lottano in segreto per la “causa LGBTIQ” all’interno della Chiesa. Anche se il suo corpo “parla” meno di quello di padre Julien (ad occhi eteronormativi, gli “orsi” appaiono molto meno gay e molto più “normali” delle “regine”), padre Robert afferma di voler cambiare l’istituzione dall’interno.
Per poter cambiare la Chiesa, e farla adattare ai cambiamenti della società, segue lo slogan progressista “né abbandonare, né tacere” e la prassi che ne consegue, facendolo comunque con grande cautela, il che può apparire ipocrita a chi osserva dall’esterno e molto ingenuo agli occhi di certi osservatori ecclesiastici, come padre Julien;
– Padre Marc, che non poteva sopportare di tenere chiusa la porta del nascondiglio, ha finito per abbandonare l’istituzione che lo aveva posto nel nascondiglio stesso, ma senza denunciarla.
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[1] Il soggetto collettivo cattolico, determinatosi storicamente, dà luogo a una sorta di “sguardo cattolico” simile allo “sguardo maschile” descritto dalla [critica cinematografica femminista] Laura Mulvey, che descrive l’infiltrazione, nella cultura visiva e nell’esperienza quotidiana, di un modo eterosessuale di guardare che erotizza il corpo femminile.
Al contrario, lo sguardo collettivo cattolico desessualizza il corpo del sacerdote e lo rende sacro. Come esempio degli effetti di questo sguardo voglio citare un sacerdote in coppia con un uomo, che in una intervista esprime il suo costante stupore di fronte alla (finta?) cecità anche dei parrocchiani a lui più vicini riguardo la sua sessualità. Racconta di quante volte il suo compagno si è fermato la notte nella casa parrocchiale, o è stato in vacanza con lui nel corso degli anni, senza che nessuno sospettasse che “l’amico del prete” (che alcuni consideravano un prete anch’egli) fosse in realtà il suo compagno (intervista con padre Michel, parroco, 63 anni).
* Josselin Tricou è assistente al Laboratorio di studi di genere e sessualità (LEGS) all’Università Parigi 8.
Testo originale: Recreating “moles”: Managing homosexual priests’ silence in an era of gay marriage