Vivere nel nascondimento. Quella segretezza che condiziona tutta la vita dei preti gay
Articolo di Josselin Tricou* pubblicato sulla rivista Sociologie (Francia), 2018/2 (Vol. 9), pp. 131-150, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, parte terza
Nel 2014, sempre nell’ambito delle ricerche per la mia tesi, svolgo diverse interviste consecutive con un parroco, padre Robert, cinquantenne, con uno stile di vita più intellettuale. Scrive regolarmente (tra le altre cose) degli articoli in cui perora l’accoglienza delle persone omosessuali nella Chiesa. Sebbene non mi dica mai esplicitamente di essere gay, tra noi due c’è una tacita comprensione sulla sua omosessualità.
La sua estetica da “orso” [1] non attira troppo l’attenzione, e fa parte, in maniera molto discreta, di una associazione LGBT cristiana. Tuttavia, dopo esserci incontrati regolarmente per un anno, e in una conversazione a margine della mia ricerca sociologica (che quindi non è stata registrata), padre Robert mi dice che ha avuto una relazione con un certo padre Adrien, che da un po’ ha tagliato i ponti con lui, come ha fatto con tutti i sacerdoti che lui considera troppo apertamente gay. Mi mette in guardia: “Non lo ammetterà mai” (come se lo scopo dell’intervista sociologica fosse una specie di confessione), e poi ancora “Quello ti metterà nel sacco”.
Nel 2015 chiedo a padre Adrien un incontro per la mia ricerca; mi risponde con cordialità, e mi invita a pranzo. Per quattro ore parliamo di tutto fuorché del mio lavoro, il che esclude la possibilità di un’intervista. Padre Adrien è bravo a controllarsi, soprattutto quando porto il discorso sugli eventi che di recente hanno scosso la Chiesa francese, come la mobilitazione contro il matrimonio omosessuale e la violenza che (gli dico) questa mobilitazione ha inflitto ai miei amici e amiche omosessuali.
Prima di accompagnarmi alla porta, nonostante il fatto che nell’arco di quattro ore non abbia nominato nemmeno una volta padre Marc, mi dice che, secondo lui, padre Marc non è assolutamente adatto al sacerdozio, che infatti abbandonerà presto. Sebbene padre Adrien non parli mai né dell’omosessualità del confratello, né della sua, capisco molto bene cosa vuole dirmi.
Secondo lui, esistono tre categorie di individui: il bravo prete omosessuale, che se ne sta zitto; quello cattivo, che rivela la sua sessualità, e che quindi non è adatto a fare il prete; e infine la persona che non fa parte del clero (come me), alla quale non si deve dire nulla, soprattutto se fa sapere di essere “aperta”, anzi simpatizzante, della causa LGBTIQ.
Erving Goffman ha accuratamente descritto la riluttanza di chi porta uno stigma (e in particolare di chi ha una “cicatrice invisibile”) a confidarsi, o a creare vere amicizie, con i suoi alleati “normali”.
Più tardi gli mando un messaggio, e gli chiedo di rivederlo per la mia intervista. Mi risponde di non avere né il tempo, né la voglia di rispondere alle mie domande (pur non sapendo che domande siano), ma intavola una lunga conversazione con me, via SMS, sui contenuti della mia ricerca… con un “tono” sarcastico, che sembra voglia farmi sentire in colpa, come se avesse sentito da un altro sacerdote che faccio domande sull’omosessualità. Secondo lui, sto violando la vita privata delle persone, e mi chiede sarcasticamente se sto fingendo di essere un sessuologo.
Così l’intervista non ha luogo, e addirittura il lungo scambio di SMS (24 da ciascuno di noi due) potrebbe farmi dubitare dell’etica del mio metodo, dissuadendomi dall’andare avanti, dato che padre Adrien avrebbe potuto mettervi fine usando le sue competenze professionali, prima facendomi sentire in colpa e poi guidando la riconciliazione, in modo da non fare apparire lo scambio troppo poco cristiano.
Naturalmente i ricercatori si trovano spesso nella posizione di “dirigere chi dirige” (Hélène Chamboredon et al.), e “anche se in certi ambienti i rischi fisici sono minimi, le tensioni interpersonali possono essere ancora peggiori” (Daniel Bizeul). Ma in questo caso, più che ispirare una riflessione sulla metodologia, sembra che tutta la situazione e il forte sospetto sollevato dall’intervistato sono indicativi del potere di quella segretezza che influenza pesantemente sulla sua vita.
Sospettoso com’è, padre Adrien si mostra tanto attento quanto il ricercatore, e dotato di un potere inquisitivo che gli permette di rovesciare i ruoli. Attraverso una sorta di proiezione e di simmetrizzazione della situazione dà per scontato che il ricercatore, proprio come lui, deve avere qualcosa da nascondere, qualcosa che può minacciare la sua stessa vita; perciò non è più il suo segreto, bensì quello del ricercatore che si confronta con il suo intervistato, che ora viene chiamato in causa. Qual è il vero scopo della sua ricerca, nascosto dietro quello ufficiale e chiaramente espresso, “utilizzato” in modo da ottenere l’accesso ad altro? Quali sono le vere intenzioni del ricercatore?
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[1] La sottocultura gay “bear” è nata negli anni ‘80 come reazione non solo all’effeminatezza delle drag queen, ma anche all’ipermascolinità del gay “macho” degli anni ‘70. Caratterizzati da una specifica immagine corporea e uno specifico rapporto con la sessualità, “[gli orsi] rifiutano la tirannia dei corpi giovanili, glabri e muscolosi, e dell’oggettificazione del sesso, in favore dei corpi maturi, sovrappeso e pelosi, delle coccole e del cameratismo” (Florence Tamagne). Gli orsi tuttavia si rifanno a certi archetipi maschili piuttosto ambivalenti, come quello dell’operaio o del boscaiolo, che negli anni 2000 sono stati fatti propri anche (e, in un certo senso, re-eterosessualizzati) dalla figura dello “hipster”.
* Josselin Tricou è assistente al Laboratorio di studi di genere e sessualità (LEGS) all’Università Parigi 8.
Testo originale: Recreating “moles”: Managing homosexual priests’ silence in an era of gay marriage