Zakhor, ricordati del tuo futuro! Andare oltre la strada già tracciata
Riflessioni sull’Ebraico e il pensiero biblico di Giuseppe Messina*
Quarto Comandamento: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è giorno di riposo per il Nome, tuo Dio. Tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il tuo forestiero che è dentro le tue porte. Poiché in sei giorni Dio ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e il settimo giorno si è riposato…” (Es 20, 9-11) (Parte quarta e ultima parte)
Lo shabbat invita ad abbandonare l’abitudine, i percorsi già tracciati. In ebraico, abitudine si dice hergel, parola che proviene da regel, piede. L’abitudine rappresenta la strada su cui il piede mi conduce senza che la testa abbia bisogno di dirmi dove andare. In questo andare, il corpo funziona autonomamente, senza cervello. Ma si potrebbe dare una diversa interpretazione dell’abitudine partendo dalla lettera lamed, che ha uno statuto speciale nell’alfabeto ebraico. Contrariamente agli alfabeti occidentali, nei quali le lettere sono poggiate sulla linea, le lettere ebraiche sono attaccate alla linea. Orbene, nessuna delle ventidue lettere ebraiche oltrepassa la linea di scrittura, eccetto la lettera lamed. Questa lettera significa “andare all’al di là della scrittura”, “andare al di là della strada tracciata”, e pertanto la si può interpretare simbolicamente come la lettera che “va oltre l’abitudine”.
Inoltre, lamed significa anche insegnare o studiare. La forma grafica della lettera indica in che senso la si deve comprendere: insegnare, studiare, vuol dire andare “al di là del versetto”, per riprendere l’espressione di Lévinas, lasciare i percorsi troppo noti. Non è forse questo il significato del termine italiano “educare”? Parola che proviene dal latino ex ducere, “portare fuori”, “andare oltre la strada tracciata in anticipo”. Pertanto se facciamo una “lettura per esplosione” del termine abitudine in ebraico, è possibile vedervi, letteralmente, una “uccisione della lettera lamed”. L’abitudine è, per l’appunto, la fine della capacità di andare oltre il versetto, di inventare e creare, dunque la fine o l’impossibilità della poesia. Avremmo solo il pensiero raziocinante, privo di sorprese, saggio (la filosofia), e non il pensiero un po’ folle della poesia (che potremmo definire: “follesofia”).
Che cosa rappresenta, dunque, lo shabbat rispetto ai sei giorni profani? È il luogo della santità che non sussiste nell’ordine dell’abitudine, ma in quello dell’innovazione, in cui si agisce in base a un corretto rapporto tra pensiero e gesto. Durante questo santo giorno è possibile ricostruire i legami esistenti tra il mio modo d’agire e quello di pensare. Lo shabbat sospende le certezze, conduce oltre l’abitudine, la strada già tracciata e ben nota: vedo veramente ciò che vedo? Penso veramente ciò che penso? Un’affermazione del rabbino Nachaman di Breslav è, a mio avviso, particolarmente illuminante a questo proposito: “Non chiedere mai la tua strada a qualcuno che la conosce, perché non potresti smarrirti”. Smarrirsi, ritrovare nuovamente la strada: ricordati del tuo futuro, della tua capacità di generare nuovamente, di percepire il mondo come quando è stato creato! Questo è senso dello shabbat.
* Giuseppe Messina è docente ordinario di filosofia e storia presso il Liceo Scientifico N. Copernico di Bologna e dal 12 marzo 2010 è presidente-fondatore dell’Associazione Amicizia Ebraico Cristiana (AEC) di Bologna, già membro dell’AEC della Romagna. Scrive articoli sul Bollettino dell’AEC di Firenze. Dal 2006 studia Ebraico biblico presso la Fraternità Charles de Foucauld di Ravenna con la maestra Maria Angela Baroncelli Molducci. Ha insegnato Ebraico biblico e Pensiero ebraico presso il Collegio San Luigi dei Padri Barnabiti di Bologna e presso il Centro Poggeschi dei Padri Gesuiti di Bologna.