Zeffirelli, ricordi d’amore partigiano
Articolo del 31 marzo 2013 di Antonio Gnoli pubblicato su la Repubblica
Scoprii il primo grande amore tra i partigiani – Non era solo attrazione era spiritualità – il regista novantenne si racconta. Visconti, Coco Chanel, la Callas. “Quando sarò davanti al giudice del cielo non gli dirò: lei non sa chi sono io!”
Nella bella villa distesa fra due tronconi dell’Appia (Antica e Pignatelli) mi trovo a fare un conto un po’ singolare: sei cani, tre assistenti, una segretaria, e un’antica tata di 99 anni che assorta, nella bella mattinata di sole, sembra fissare un punto indefinito del giardino. Spinto su una carrozzella, compare Franco Zeffirelli. Indossa una tuta blu. Saluta cordiale e indica con la mano dove seguirlo.
I capelli riflettono un biondo ramato. La scena, nel suo evidente iperrealismo, sembra dettata da un tardivo artista della pop art. Seguo il maestro nel suo laboratorio. Ha mani bellissime, diafane, leggere e volatili, con le quali mostra un modellino in legno posto sul tavolo. Si vedono la facciata di un palazzotto ottocentesco e l’interno composto di stanze riprodotte in scala.
Un’abile rappresentazione di quella che sarà la fondazione che Zeffirelli ha voluto realizzare a Firenze. «Quando sarà pronta? Spero presto, non è che poi abbia tutto questo tempo. E mi auguro inoltre che non venga vista come il recipiente delle proprie vanità. Ma come la storia di un uomo che è stato fortunato e che tanto ha avuto dalla vita».
Si sente in debito?
«L’unica cosa che di solito la gente nota è ciò che hai avuto di diverso e di più da lei. E se ti è a volte riconoscente è perché avverte che le hai dato un’emozione che non si aspettava. Non la felicità, ma piccoli scampoli di intrattenimento. Sono riconoscente al pubblico che mi ha seguito e la Fondazione è anche un modo per pagare un debito».
Crede insomma nei simboli, nel fatto che qualcosa resterà?
«Oddio, non vorrei presentarmi davanti a qualche remoto burocrate kafkiano che amministra la giustizia divina per dirgli: lei non sa chi sono io! Andiamo. Se qualcosa resterà ne sarò lieto. Ma non sarò io a scoprirlo. Bando alle malinconie. Guardi piuttosto questo quadro. È mia madre da giovane. Era di una bellezza che faceva girare la testa a mezza Firenze».
Colpisce questo attaccamento materno. So che la sua infanzia non è stata facile.
«Sono stato il classico figlio dell’amore tra due persone che si sono piaciute ma erano già sposate. La mamma era una grande sarta. E mio padre importava stoffe. La loro storia fu un grande scandalo. Ma continuarono a vedersi in modo meraviglioso anche se clandestino. Poi finì l’amore. E vennero i giorni della sofferenza. Delle ostilità. La mamma dovette chiudere l’atelier».
Che cosa era accaduto?
«Si avvicinava la crisi del 1929. I primi effetti si riversarono, in maniera catastrofica, specialmente nei commerci della vanità. Quell’anno la mamma si ammalò di tumore e morì. Non avevo ancora sei anni. Dovrei scriverci un romanzo. Lo dicevo a Pratolini: Vasco, se tu raccontassi la mia vita e quella di una certa borghesia fiorentina, scriveresti altro che Le ragazze di San Frediano! ».
E suo padre?
«Continuò a volermi bene. Avevo compiuto sette anni quando mi regalò un’edizione della Divina commedia, con le illustrazioni di Gustave Doré. Rimasi folgorato da quei disegni imponenti, cupi e simbolici. Racchiudevano una misura solenne e imperiosa che è poi stata fondamentale nel mio lavoro».
Come è arrivato a essere Zeffirelli?
«Orgoglio, talento, gioia, ambizione. A 15 anni sentivo intorno a me l’ammirazione dei miei coetanei. Mi nutrivo di musica e di arte. Mi iscrissi al liceo artistico e poi alla facoltà di architettura. Durante l’ultimo anno dell’università, a causa della guerra, scappai in montagna. Entrai in una formazione partigiana e mi resi utile come interprete. Conoscevo bene l’inglese».
Come lo aveva imparato?
«Mio padre voleva che mi trasferissi a Londra. Amavo quella lingua. Ero affascinato dalle vecchie signore inglesi che vivevano a Firenze, come fossero nel mondo magico e irripetibile di Shangri-La. Credo di aver imparato a vivere e desiderare questa città attraverso gli occhi degli inglesi».
Le stava stretta l’Italia provinciale?
«Non lo so. Ciò che a un certo punto avvertii fu il rigetto del fascismo. Improvvisamente vidi nel Duce un pagliaccio e me ne resi conto con dolore, perché fin da bambini eravamo stati nutriti con quel latte lì. Scoprire che era acido fu una grande delusione. Tutto questo agevolò la mia scelta partigiana. Vidi cose terribili, sentii l’orrore della guerra e capii quanta gioventù fu sacrificata. Ma al tempo stesso si aprì un capitolo straordinario della mia vita».
Cosa accadde?
«Scoprii l’amore. Feci la mia conversione sessuale lassù, in montagna. In quegli aspri momenti con la morte che incombeva mi si rivelò l’uomo in tutta la sua straordinaria bellezza. Fu una reazione istintiva, un risveglio, un’attrazione spontanea. Non era solo innamoramento per un corpo maschile, ma sentire una diversa spiritualità».
Un eros più complesso?
«Qualcosa che ho rivissuto in seguito con Luchino Visconti. Tutto quello che è stato oggetto del nostro rapporto non ha mai fatto a meno dell’aspetto umano. Tante volte mi sono trovato a doverlo confortare. Con me si apriva come non avrebbe mai fatto, neppure con sua madre».
«L’ho amato, innanzitutto, per le sue debolezze. Adorava che i comunisti lo vezzeggiassero. Non resisteva alla vanità ideologica. Ma conoscendolo bene capivi che cercava solo la bellezza e l’amore».
«Non era il solo. Credo che il contrasto fosse allora molto chic. Del resto aver frequentato il populismo francese ed essere stato assistente di Jean Renoir influì moltissimo sulle sue scelte politiche. Renoir glielo presentò Coco Chanel, che io conobbi a Parigi nel 1949».
«Fu Luchino a darmi una lettera con cui presentarmi a lei. Mi ricevette una tarda mattina al Ritz. E mentre attendevo nella stanza accanto della suite, ascoltai involontariamente una furiosa litigata con la sua amica Maggie van Zulyen. Se ne dissero di tutti i colori. Si insultarono. Poi alla fine piombò il silenzio. Improvvisamente comparve Chanel. Inconfondibile nel suo abitino nero e con in pugno un frustino che agitava nervosamente ».
«Mi chiese di farle leggere la lettera, nella quale Visconti concludeva promettendo che sarebbe presto tornato a Parigi a riabbracciarla. È un gran bugiardo, lo è sempre stato e non verrà di certo, commentò scuotendo il capo. Era una donna bizzarra, versatile, geniale. Capace di andare immediatamente al cuore di un problema. E fu soprattutto una leggenda».
Come la Callas?
«Avevano, anche se in modo diverso, la vocazione per il sublime. Maria è stata una povera creatura troppo grande per questo mondo. Non era umana, apparteneva alla mitologia. Cercò in tutti i modi di difendersi dalle vibrazioni negative. Ma sotto l’armatura che indossava per non essere ferita, nei quotidiani duelli con la vita, c’era un fiore adorabile. In pochi l’hanno capita».
Ma in molti hanno amato la sua voce.
«Già, quella voce. Era un palpito segreto, uno stato d’animo capace di trasformarsi in poesia. Nessun’altra cantante è mai arrivata a tanto».
Le ha dedicato anche un film.
« Callas Forever. Diedi la parte a Fanny Ardant. Mi sedusse la sua dedizione al personaggio. Volevo raccontare qualcosa di irraccontabile: si può fermare il declino che insidia il talento assoluto? C’è qualcosa di profondamente tragico nel momento in cui si tocca l’apice della perfezione. Perché intuisci che non può durare a lungo, sai che la vita che ti ha dato immensi doni, lentamente se li riprende. Ed è un destino inscritto in ogni atto creativo».
Basterebbe decidere quando è il momento di smettere.
«Non è facile. Spesso ci rifiutiamo di ascoltare quella vocina che ci dice: sarebbe ora che tu mettessi un punto».
La vanità copre tutto?
«Non è questione di vanità. Come si fa a dire che Chanel, Callas, la Taylor, la Magnani, altre grandi amiche, fossero vanitose? Nel loro campo sono state donne straordinarie. La loro battaglia contro il tempo che passa ha rappresentato qualcosa di commovente. Non bisogna fermarsi all’immagine esterna della diva. Occorre andare oltre e guardare in fondo a quella sfida che ci vede immancabilmente soccombere».
E allora cosa suggerisce?
«Servirebbe una maggiore compassione».
Non ce n’è molta in giro, soprattutto nel suo ambiente.
«È vero, siamo superficiali e futili. Il solito inferno di banalità. Ma dove ci ha portato tutto questo? Credo che scrutare nel proprio cuore non sia come fare l’analisi a un campione di urina».
A proposito di cuore mi viene in mente il suo film su San Francesco. A cosa lo assocerebbe oggi?
« Fratello sole, sorella luna uscì in Italia il giorno di Pasqua di quarant’anni fa. Non ebbe recensioni benevole, ma fu il film che il pubblico ha amato di più. Mi è tornato alla mente quando hanno eletto il nuovo papa. Mi piace la sua modestia, la sua tenerezza. Ricordo di averlo conosciuto a Buenos Aires, quando portai la Traviata.
Quest’uomo schivo, che si presentò a teatro, non mi impressionò allora. Ma la cosa importante è che ha saputo oggi dare il meglio di sé senza forzature. E non posso non pensare al contrasto evidente con la nostra vita politica. Così sconfortante da crearmi un senso di smarrimento».
Ne usciremo?
«In qualche modo se ne esce. Ma io che ho visto tanto mondo e conosciuto tanti personaggi mi trovo per la prima volta sgomento davanti alla nostra situazione. Prevale il senso di impotenza e rabbia. Certe volte mi sveglio la mattina e dico: non è possibile».
Com’è una sua giornata?
«Lavoro molto ai dettagli di questa Fondazione. Però ci sono momenti in cui, per una qualche coincidenza negativa, ho come la sensazione che nessun progetto mi stia a cuore. Ed è una percezione bruttissima. E mi chiedo cosa mi stia accadendo. Per fortuna non dura molto. E alla fine non mi lamento. Ho ancora tante finestre da cui affacciarmi. Ho poco tempo. Lo so. Ma questa condizione, paradossalmente, aiuta i vecchi a non invecchiare».
Cos’è per lei la vecchiaia?
«L’attesa di una partenza. Si comincia a guardare l’orologio con il conto alla rovescia. Dopotutto ho compiuto novant’anni».
Sono stati belli?
«Bellissimi, e mi dispiacerà lasciarli. I nostri giorni, migliori e peggiori, sono quelli che si passano su questa terra. Altrove chissà. Tutto questo casino che ho fatto quaggiù, alla fine non so se mi farà meritare un pezzetto di cielo. Tutto è così relativo. Sia nei punti di riferimento come nelle tracce che lasceremo».
L’hanno perfino fatta Sir, che è un segno di inconfondibile durata.
«È vero, fui insignito dell’onorificenza da Elisabetta II nel 2004. Londra mi ha amato, forse per contraccambiare il mio amore per Shakespeare. Come diceva il bardo: “ Succeda quel che succeda, i giorni brutti passano, esattamente come tutti gli altri”. Non le pare? Ma vedo che si è fatta l’ora di andare a tavola».