“Hanno pagato per uccidermi”. Il prezzo pagato da chi cerca di combattere l’omofobia in Uganda
Articolo di Jacob Kushner pubblicato sul sito del quotidiano The Guardian (Gran Bretagna) il 21 ottobre 2019, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Maria Nantale si beve una birra in un traballante bar in legno dopo una lunga giornata di lavoro: “Oggi ho fatto il test a quaranta persone, e ne ho trovate tre positive. Una di esse non ha voluto accettare il risultato, ed è scappata”. Due volte alla settimana, dall’alba al tramonto, Maria esegue il test dell’HIV nella città [ugandese] di Mbale, 76.000 abitanti: lo scopo è combattere l’infezione tra chi è più a rischio, vale a dire le persone LGBT, i tossicodipendenti e le prostitute.
Chiede sempre a una persona del posto di fare un po’ di musica, mentre le sue educatrici insegnano come usare i profilattici, parlano di sesso sicuro e invitano la gente a fare il test. Il suo laboratorio mobile conta tra i collaboratori tre infermiere, un tecnico di laboratorio e una psicologa.
L’Uganda è al decimo posto al mondo per tasso di infezione da HIV: il 6,2% della popolazione, il 7,6% delle donne. Si pensa ne siano infetti più di 1,2 milioni di ugandesi.
L’Uganda è anche uno dei Paesi più omofobi al mondo. All’inizio di questo mese [ottobre 2019] un attivista LGBT è stato assassinato nella città di Jinja, nella parte orientale del Paese, non lontano da Mbale, dove lavora Maria. Sempre recentemente, alcuni membri del Governo hanno dichiarato di voler inasprire le leggi contro l’omosessualità, riesumando il cosiddetto disegno di legge “ammazzagay”, introdotto nel 2013, che prevedeva in certi casi anche la pena di morte.
Con la legge attuale, gli atti omosessuali possono essere puniti con la reclusione fino a quattordici anni. Per le persone LGBT è routine subire abusi di ogni tipo da parte della polizia, e maltrattamenti e violenze da parte dei compaesani. A causa della legge contro l’omosessualità, le persone LGBT esitano molto a cercare assistenza medica per l’HIV/AIDS; ecco quindi che l’obiettivo primario di Maria Nantale sono le persone gay e transgender, oltre che le prostitute, tutte persone ad alto rischio HIV. Secondo alcune stime, le prostitute in Uganda sono particolarmente a rischio di contrarre l’infezione.
Il problema, come ci spiega Maria, è che gran parte delle persone emarginate non vuole fare il test per via del doppio stigma di persone sieropositive e queer in un Paese omofobo: Maria è giunta così alla conclusione che doveva offrire il test a tutti, per evitare il diffondersi della credenza secondo cui le persone LGBT sono “malate” o infette.
A complicare la situazione, la condizione di molte persone LGBT che vivono nelle zone rurali, che si spostano spesso da un luogo all’altro o sono senza fissa dimora, perché le loro famiglie le hanno cacciate. Invitando l’intera popolazione a eseguire il test in un luogo pubblico, Maria crea un luogo protetto per le persone più vulnerabili: “È una strategia che usiamo per far sì che le persone LGBTI, i tossicodipendenti e le prostitute vengano da noi a fare il test. Quando scoprono di avere l’HIV, di solito tendono a fuggire, per questo abbiamo con noi una psicologa, per rassicurarli”.
Maria è lesbica, ed è una donna che non piega la testa in un mondo dominato dagli uomini, e perciò guadagnarsi la fiducia della gente non è stato facile: “Mi ci sono voluti anni”. Maria, che dirige la Eastern Region Women’s Empowerment Organisation (Organizzazione per l’Emancipazione delle Donne nella Regione Orientale), è un personaggio anomalo in Uganda, dove gli attivisti e le attiviste LGBT devono vedersela con problemi come evitare di venire arrestati o ricattati dalla polizia, oppure dai compaesani; molti adolescenti vengono diseredati dalle famiglie, e alcuni sono costretti ad abbandonare il Paese. Il metodo di questa attivista energica e impeccabilmente vestita consiste nell’attaccare a testa bassa lo stigma, svolgendo la sua attività alla luce del sole, di fronte agli amici, ai famigliari e ai compaesani delle persone sieropositive.
Un giorno, furono molte le persone che videro un uomo alto, sui quarant’anni, che si avvicinò ai banchetti sistemati dalla squadra di Maria in un quartiere povero e sovrappopolato di Mbale. Una delle infermiere pulì un dito dell’uomo, poi lo punse; uscì una gocciolina di sangue, che l’infermiera pose su una strisciolina di carta, poi con un po’ di cotone disinfettò il dito. Dieci minuti dopo fu annunciato il risultato di fronte alla decina di persone che stazionavano nei pressi: negativo.
Una volta che la gente supera l’imbarazzo iniziale, di solito tutto il quartiere partecipa all’iniziativa: “Alcune donne vengono portando anche il proprio uomo”. C’è per esempio una bisnonna ottuagenaria, che non si perde un test per essere sempre aggiornata su ciò che succede nel quartiere, mentre le educatrici distribuiscono preservativi maschili e femminili.
L’attività di Maria Nantale ha attirato l’attenzione delle organizzazioni LGBT, come Sexual Minorities Uganda, che hanno preso a collaborare con lei nella prevenzione dell’HIV. Il suo progetto è inoltre sostenuto da donatori internazionali, come USAid, che ha finanziato l’acquisto della sua clinica mobile, e da Pepfar, un’iniziativa globale che si è rivelata efficacissima nella cura e nella prevenzione dell’HIV/AIDS.
Ma non sempre tutto fila liscio. Una sera, dopo una giornata di lavoro, Maria ha passato un’ora nella ricerca di un’adolescente sieropositiva, che era scappata dopo aver gettato i suoi farmaci antiretrovirali in un fosso per vergogna, disperazione, o tutt’e due le cose. Maria cerca di rassicurare chi risulta positivo, spiegando che non è una condanna a morte, ma le radici della depressione delle persone LGBT ugandesi non affondano solo nel terreno della salute: “Una delle tre persone risultate positive quel giorno, una lesbica, era stata stuprata da suo zio. Era devastata. Ora riposa lì nei pressi”.
Per molte persone LGBT [ugandesi] la violenza è pane quotidiano; la stessa Maria ha subìto un attentato da parte di un uomo prezzolato da alcuni anziani di un villaggio: “Hanno pagato un guidatore di boda boda [le mototaxi tipiche dell’Africa orientale] per uccidermi. Omofobi”. Il suo attivismo LGBT la pone in pericolo, ma quella volta l’ha salvata: “Per fortuna lì c’era un prostituto che conosco, a cui avevo dato preservativi gratis. Mi ha riconosciuta, mi ha messo sul suo rimorchio ed è corso all’ospedale”.
Maria rimase molte settimane in coma. Ora vive con la sua compagna e il loro figlio in un luogo sicuro, protetto da una guardia. Per andare nel suo ufficio prende ogni volta una strada diversa, per evitare altre aggressioni.
I ripetuti attacchi verbali hanno costretto molti amici e amiche di Maria ad abbandonare Mbale per andare a vivere nella capitale. La vita a Kampala assicura un certo grado di anonimato e di libertà, ma anche un senso di isolamento, di solitudine e di depressione: “Potrei andare a vivere a Kampala, ma mia nonna vive qui, mio zio vive qui” dice Maria: andarsene altrove, in un certo senso, significa abbandonare la famiglia.
Sono le stesse famiglie, tuttavia, ad emarginare. Secondo un sondaggio del 2016, per il 53% degli Ugandesi l’omosessualità dovrebbe essere sanzionata per legge (la percentuale più alta tra le dieci nazioni africane prese in esame), e il 19% non sarebbe certo contento se suo figlio o sua figlia si innamorasse di una persona dello stesso sesso. È stato rilevato però anche che il 40% ritiene che il bullismo verso le persone LGBT sia un grosso problema. Tale consapevolezza, per Maria, lascia spazio alla speranza.
Forse, a Mbale, le cose stanno iniziando a migliorare. Solamente cinque anni fa, quando stava per passare la nuova legge antiomosessualità, Maria subì un outing da parte dei giornali locali, venne licenziata dal suo lavoro ed esposta al pubblico ludibrio; ora interi quartieri la conoscono per nome, e rispettano il suo lavoro di tutela della salute tra la gente emarginata: “Voglio che la gente pensi al mio lavoro, non al mio orientamento [sessuale]”.
Testo originale: ‘They paid a guy to kill me’: health workers fight homophobia in Uganda